A cura di Pietro Magrin – CEO Primary System Research SpA

Si è appena concluso a Davos in Svizzera l’annuale forum, come sempre imperniato sulla globalizzazione e sull’analisi dei temi legati agli sviluppi futuri dell’integrazione globale dei processi produttivi.

Il tema di quest’anno “ Globalizzazione 4.0 “ ci racconta però di una nuova fase ancora tutta da sviluppare, di cui abbiamo appena cominciato ad apprezzarne gli effetti.

Come ci spiega Richard Baldwin, di fasi della globalizzazione ne abbiamo vissuto una prima, divenuta secolare, che è quella del commercio. La seconda è quella che ha riguardato la dislocazione di intere fasi della produzione, e ha originato le “catene globali del valore”,  il cui risultato è stato che circa il 70 per cento degli scambi globali è ormai fatto di prodotti intermedi che passano da una frontiera all’altra per raggiungere due obiettivi: l’ high-tech e basso costo del lavoro.

La terza, secondo Baldwin, è quella odierna del digitech, in cui, beni e servizi verranno sempre più realizzati in un posto, senza lo spostamento fisico dei lavoratori.

Anche la società di consulenza McKinsey, in una delle ultime indagini presentate sostiene che questo sta, in qualche misura, già avvenendo, con il mutamento della globalizzazione, sempre meno legata a beni fisici e sempre più ai servizi, magari sviluppati su piattaforme internet. Per questo motivo, nelle catene globali di valore, i beni che attraversano effettivamente una frontiera sono passati, nell’arco degli ultimi dieci anni, dal 28,1 al 22,5 per cento della produzione relativa.

Il fenomeno che il rapporto McKinsey mette chiaramente in luce è il reshoring: le catene di valore si accorciano e la produzione rifluisce verso il centro, concentrandosi su aree più vicine alla domanda. Ma il motivo per cui la ricerca di bassi salari oggi interessa poco e le fabbriche possono tornare in America e in Europa si chiama robot e software.

Il think thank Brookings, calcola che 80 per cento della quota dei posti di lavoro nelle fabbriche americane siano esposti all’automazione.

La “tuta blu” di un tempo non esiste ormai più. Nelle fabbriche manifatturiere si muovono oggi tecnici specializzati Hi-Tech, altamente qualificati con mansioni completamente diverse da quelle svolte nelle vecchie catene di montaggio di un tempo.

La Meccatronica dunque riguarda non solo il processo produttivo, ma anche il prodotto finale, dove meccanica, elettronica e informatica convergono aprendo opportunità fino a ieri inimmaginabili.

Alcuni numeri del settore ci aiutano a capire come questo sia divenuto un pilastro anche della nostra economia italiana. Sono oltre 122mila le imprese meccatroniche in Italia, pari al 28% del manifatturiero complessivo, per un totale di oltre un milione e mezzo di addetti. Il comparto, con circa 120 miliardi di euro di valore aggiunto prodotto, contribuisce per l’8% al Pil del Paese. L’Export della Meccatronica italiana ammonta a 215 miliardi di euro, pari a circa il 15% sul totale delle esportazioni Made in Italy (su 448 miliardi totali).

La meccatronica insomma non è altro che la meccanica del futuro, settore altamente interdisciplinare, nel cui perimetro si intersecano tutte le discipline attinenti i sistemi meccanici (elementi meccanici, macchine, macchine di precisione), i sistemi elettronici (microelettronica, elettronica di potenza, tecnologia dei sensori e degli attuatori) e le tecnologie informatiche (automazione, teoria dei sistemi, ingegneria del software e l’intelligenza artificiale)

Il risultato è la connessione dei sistemi di produzione per semplificare i processi , aumentare l’efficienza produttiva delle imprese e cosa non trascurabile, migliorare le condizioni di lavoro.

La Meccatronica è sinonimo di eccellenza di prodotto, dalle più avanzate tecnologie ai più piccoli e semplici componenti, e si sposa così perfettamente con il dna delle nostre aziende italiane, da sempre orientate all’innovazione per vincere le sfide dei mercati mondiali.